Per mesi e mesi, le domande che mi sono posta sono state sempre le stesse: "perchè?" "perchè io?" "perchè mio figlio?". Difficilissimo darsi una risposta, dando un senso alla sofferenza di questi piccoli angeli innocenti. I bambini dovrebbero starsene nelle loro cullette, circondati di carillon a giostrine, nelle loro camerette decorate con tanta emozione nella lunga, trepidante attesa. Dovrebbero avere intorno a sè pareti tinteggiate di rosa confetto e azzurro cielo, lampadari a forma di mongolfiera, orsacchiotti di peluche, cestini adorni di fiocchetti con dentro il borotalco, l'olio di mandorle e tutto ciò che profuma di tenerezza; e invece sono lì, nudi, quasi inchiodati su quei lettini della TIC, un cerotto grosso quasi quanto loro a coprirgli il petto, un tubo infilato nel naso, i piedini scalzi, le piccole braccia intrecciate di tubicini.
Eppure deve esserci, un senso in tutto ciò. Non posso credere che mio figlio abbia sofferto per un puro capriccio del caso, che io porterò quelle immagini impresse a fuoco nella mia mente senza che abbiano un significato se non quello di saltar fuori all'improvviso, nel cuore della notte, tormentando i miei sogni. Niente accade per caso, magari talvolta ci vuole del tempo, ma prima o poi tutto diventa chiaro.
"Accadono cose che sono come domande.
Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde."
Scrive Baricco in "Castelli di rabbia"; e forse per la prima volta ho veramente chiaro il senso di questa frase. Ho passato settimane di lacrime e domande, senza avere la risposta che cercavo. E quando poi, lentamente, sono ritornata alla vita normale, inaspettatamente l'ho trovata.
Nel corso dei mesi passati, ho avuto l'occasione - grazie perlopiù ad Internet - di conoscere molti genitori che sono passati attraverso esperienze simili. E già questo, trovo sia un piccolo miracolo sbocciato come un fiorellino silenzioso lì dove prima non c'era che dolore; perchè proprio internet, così demonizzato, e proprio facebook, straripante talvolta di tanta superficialità, sono diventati il mezzo - o più propriamente, il luogo - attraverso cui mettere in contatto tante anime fisicamente lontane, ma spiritualmente vicinissime.
Ho conosciuto persone splendide, persone alle quali il dolore anzichè togliere qualcosa ha dato un dono, quello di vedere la vita con occhi nuovi, di ascoltare con il cuore, di trovare la gioia nelle piccole cose, trovando la vera essenza di ciò che ci circonda.
Al di là di ciò che può apparire retorico a chi è ben lontano da un'esperienza simile - la sofferenza che fortifica, le esperienze dolorose che in fondo sono riservate alle anime speciali, e tutto ciò che nel tentativo di confortarmi mi sono ripetuta in quelle interminabili settimane - la mia risposta l'ho trovata.
L'esperienza non è stata vana, perchè è servita a dimostrarci che non siamo ancora falliti, come esseri umani, fintanto che siamo capaci di condividere le sofferenze di un altro, sentirle come fossero nostre e provare il desiderio di alleviarle anche se l'altro è uno sconosciuto.
Non è forse un dono prezioso, aprire gli occhi e accorgersi che c'è ancora speranza, per il mondo, perchè siamo ancora capaci di commuoverci e sentire che i figli degli altri sono un po' anche i nostri?
Ecco, nel mio piccolo, ciò che leggo negli occhi di mio figlio, quando sorride. La speranza, l'ottimismo, il rosa brillante del futuro.
The boy who lived
2 anni fa
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