giovedì 10 marzo 2011

QUEL LUNGO GIORNO DI ATTESA....

Scorrendo a ritroso il blog, mi pare di non aver mai descritto dettagliatamente il giorno dell'intervento vero e proprio; a dire il vero nella mia mente è tutto molto sfocato e confuso, probabilmente perchè in quelle lunghissime ore la mia mente era tutt'altro che lucida e ricettiva verso ciò che avevo intorno.
Eppure, immagino che per una mamma ed un papà possa essere utile sapere COSA accade, il giorno in cui tutta la tua vita resta sospesa - per undici, dodici ore - come se qualcuno avesse premuto il tasto "pause".

Com'è facile immaginare, il momento più duro è quello in cui bisogna accompagnare il proprio bimbo fino alla sala operatoria; ricordo di essermi alzata quella mattina con una sensazione a metà tra lo sconforto per ciò che stava per accadere ed il sollievo; sollievo perchè, finalmente, il giorno tanto atteso era arrivato, il giorno che avrebbe fatto da "spartiacque" incamminandoci lentamente verso le dimissioni. Sconforto, facile immaginarlo, perchè le dimissioni ci sarebbero state solo nell'eventualità che tutto fosse andato liscio; è vero, avevamo la statistica a nostro favore, ma come ho detto in un post precedente i meri dati statistici non sono di gran conforto, quando pensi che quel 5% di "sfortunati" potrebbe comunque includere anche te.

Come ogni mattina siamo arrivati al reparto di Patologia Neonatale, ed abbiamo aspettato; l'orario in cui ci avevano dato appuntamento era precedente al normale orario di entrata dei genitori in reparto, perciò nella piccola saletta d'attesa (un brandello di corridoio, una parete occupata dagli armadietti di metallo, un tavolo con copriscarpe e camici di plastica, un citofono) c'erano solo pochi genitori.
Molte volte, nei giorni precedenti, mi ero trovata io nella situazione speculare; seduta sulla sedia di plastica, in attesa di un orario di entrata che pareva non arrivare mai, sapendo che oltre la parete alle mie spalle qualcun'altro (con amore e competenza, per carità, ma pur sempre qualcun altro) stava facendo il bagnetto al mio bambino. In piedi, un padre e una madre col viso segnato, che forzando un sorriso ti raccontano che per loro è arrivato "il giorno".
Qualche parola di circostanza "in bocca al lupo", "anche a voi"; la porta del reparto si apre e finalmente appare l'infermiera che ci chiama. Non dimenticherò mai quel momento, quando oltrepassando la porta abbiamo visto nostro figlio nella sua culletta a rotelle, in corridoio, tranquillo ed ignaro di tutto nel suo pigiamino con il bollino dell'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù.
Il tragitto è stato interminabile ed avvolto in un silenzio irreale; ricordo che seguivamo i passi veloci dell'infermiera attraverso corridoi ed ascensori, talvolta passando in mezzo ad altri pazienti, a volte imboccando i passaggi strettamente riservati al personale. Qualche sguardo di chi ci incrociava lasciava intendere che immaginavano perfettamente dove fossimo diretti. Immagino che, per chi lavora in ospedale pediatrico, lo sguardo smarrito di un genitore che accompagna il proprio bambino nella camera operatoria sia inconfondibile.
Non ricordo a cosa pensavo; ricordo che mi muovevo come un automa, quasi incerta che quella situazione così irreale - i corridoi sotterranei spogli, percorsi solo da infermieri in camice bianco o verde, indaffarati a trasportare portaprovette o spesse cartelline - stesse accadendo veramente, e stesse accadendo a me.
Dopo un ultima salita in ascensore arriviamo in un piccolo atrio, dove troviamo riunito un piccolo manipolo di medici ed infermieri. Lì per lì la mia mente ha faticato non poco per capire che il momento era arrivato; il momento in cui l'infermiera, con tutta la delicatezza possibile ci comunica che dobbiamo salutare il nostro bambino, ed affidarlo a loro.
Cosa ho detto, quando mi sono chinata sulla culletta? Non ne ho idea, così come non ricordo se in quel momento piangessi o meno. Ricordo solo i suoi occhi aperti, e la paura che quella potesse essere l'ultima volta che li vedevo.
Quando ci hanno accompagnato fuori dal reparto, nel corridoio dov'è la sala d'aspetto, ho avuto la sensazione che qualcosa dentro di me si spezzasse. La porta alle nostre spalle si è chiusa con uno scatto secco, quasi un colpo di fucile, lasciandoci in un corridoio attraversato da pazienti, medici, bambini, passeggini, inservienti con i carrelli per ricaricare le macchinette automatiche.
Da quel momento in poi, nella mia testa c'è come un buco temporale. Siamo entrati nella sala d'aspetto, una stanza rettangolare con tutto intorno dei divanetti rivestiti di una stoffa morbida, marrone scuro, e con un quadro della Madonna col Bambino in fondo; con noi c'erano i nostri genitori, ed altri papà e mamme in attesa. Con loro abbiamo scambiato pochissime parole, quel tanto che bastava per sapere che noi, lì dentro, eravamo quelli con l'attesa più lunga: dodici ore.
Dodici ore che ho trascorso immobile su quel divano, sforzandomi assieme a mio marito di non pensare, di immaginare che fossimo in attesa di tutt'altro; avevamo con noi una Settimana Enigmistica (che non ho avuto più il coraggio nè di buttare nè di riaprire per molti mesi, anche dopo il rientro a casa), un Vanity Fair e qualche altra rivista che si perde però nella memoria (forse Geo?). Difficile cercare di affogare l'angoscia con un cruciverba o un po' di gossip. Non controllavo l'ora, non alzavo lo sguardo verso la porta della Sala Operatoria, non passeggiavo nei corridoi, la mia paura più grande era che qualcuno, prima del tempo, venisse per annunciarmi che era sopraggiunto un problema.
Mi limitavo a stare lì. Io e mio marito ci stringevamo l'uno all'altra come due pappagallini.

A pensarci, è straziante. In quel preciso istante in cui mi sforzavo di riempire le caselline del cruciverba a pochi metri da me qualcuno addormentava mio figlio, gli segava lo sterno, lo sollevava, incideva e sollevava le coronarie, staccava aorta e polmonare, le invertiva e ricuciva ciascuna al posto giusto, poi richiudeva tutto. Non so se qualcuno di voi riesce ad immaginare qualcosa di più orribile del corpicino di un neonato di 15 giorni che subisce tutto questo.
Ad ora di pranzo qualcuno ci ha costretto ad uscire per una boccata d'aria - c'era un sole irritante, insolente.. come poteva splendere il sole in una giornata tanto brutta? - e mangiare qualcosa. Siamo rimasti fuori il minimo indispensabile; mi sembra ormai di essere entrata in simbiosi con i divanetti marroni.
Tornati dentro, ricominciamo l'attesa. Nel corridoio non c'erano finestre, perciò il tempo scorreva lento sotto la luce giallastra dei neon; nessun indizio delle ore che si susseguivano.
Non sentivo la stanchezza, il fastidio di trascorrere tutte quelle ore seduta su un divanetto scomodo, la mancanza d'aria fresca e di luce naturale. Ero come imbambolata.
Intuimmo che si era fatto tardi quando ci ritrovammo in una saletta vuota, ed anche fuori nel corridoio non erano rimaste che poche persone immerse anche loro in una silenziosa attesa - avremmo imparato poi che erano genitori di piccoli pazienti in Terapia Intensiva, che attendevano la fine del nostro intervento ed il trasferimento di nostro figlio in TIC per poter finalmente entrare e visitare i loro bambini.
Quando infine un medico è scivolato fuori dalla porta ed ha chiesto di parlarci, ho temuto che le gambe non mi reggessero.
"E' tutto a posto" Parlava in un sussurro. E' strano avere davanti a sè una persona reduce da undici, dodici ore di intervento che trova ancora il tempo e la pazienza di rassicurarti con un sorriso.
Non siamo potuti entrare che per pochi minuti in Terapia Intensiva; mio marito all'inizio ha cercato di sconsigliarmi, per paura che mi impressionassi. Sapevo che avrebbero lasciato lo sterno aperto per almeno 36 ore dopo l'intervento - per verificare che emodinamicamente fosse tutto a posto -e immaginavo che sarebbe stata dura vedere il mio bambino in quelle condizioni.

Ma cos'altro avrei potuto scegliere? E' vero, adesso quell'immagine ce l'ho impressa a fuoco nella mente, ma allora tutto ciò che potevo fare era fargli sentire la mia voce. Una manciata di minuti davanti a quello che sembrava un bambolotto di cera, con un enorme cerotto a coprirgli il petto, sotto al quale su vedeva sollevarsi ed abbassare ritmicamente il cuore. Tubi ovunque, flebo, rubinetti. Un enorme macchinario alle sue spalle che sibila come un mostro addormentato, controllando l'infusione dei farmaci.

Mai come quella sera è stata dura uscire dall'ospedale e lasciarlo lì. Fuori cominciavano a brillare le stelle, l'aria profumava di primavera, e io continuavo ad immaginarlo lì, da solo, nudo nel silenzio della TIC assieme ad altri piccoli pazienti. E piangevo.

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