domenica 8 maggio 2011

.. Rinascere.



Più dei tramonti, più del volo di un uccello, la cosa meravigliosa in assoluto è una donna in rinascita.

Quando si rimette in piedi dopo la catastrofe, dopo la caduta.

Che uno dice: è finita. No, finita mai, per una donna.

Una donna si rialza sempre, anche quando non ci crede, anche se non vuole.

Non parlo solo dei dolori immensi, di quelle ferite da mina anti-uomo che ti da la morte o la malattia.

Parlo di te, che questo periodo non finisce più, che ti stai giocando l'esistenza in un lavoro difficile, che ogni mattina è un esame, peggio che a scuola.

Te, implacabile arbitro di te stessa, che da come il tuo capo ti guarderà deciderai se sei all'altezza o se ti devi condannare.

Così ogni giorno, e questo noviziato non finisce mai. E sei tu che lo fai durare.

Oppure parlo di te, che hai paura anche solo di dormirci, con un uomo; che sei terrorizzata che una storia ti tolga l'aria, che non flirti con nessuno perché hai il terrore che qualcuno s'infiltri nella tua vita.

Peggio: se ci rimani presa in mezzo tu, poi soffri come un cane.

Sei stanca: c'è sempre qualcuno con cui ti devi giustificare, che ti vuole cambiare, o che devi cambiare tu per tenertelo stretto.

Così ti stai coltivando la solitudine dentro casa. Eppure te la racconti, te lo dici anche quando parli con le altre: "Io sto bene così. Sto bene così, sto meglio così".

E il cielo si abbassa di un altro palmo. Oppure con quel ragazzo che ami alla follia.

In quell'uomo ci hai buttato dentro l'anima; ed è passato tanto tempo, ce ne hai buttata talmente tanta di anima, che un giorno cominci a cercarti dentro lo specchio perché non sai più chi sei diventata.

Comunque sia andata, ora sei qui e so che c'è stato un momento che hai guardato giù e avevi i piedi nel cemento.

Dovunque fossi, ci stavi stretta: nella tua storia, nel tuo lavoro, nella tua solitudine.

Ed è stata crisi. E hai pianto. Dio quanto piangete!

Avete una sorgente d'acqua nello stomaco. Hai pianto mentre camminavi in una strada affollata, alla fermata della metro, sul motorino.

Così, improvvisamente. Non potevi trattenerlo. E quella notte che hai preso la macchina e hai guidato per ore, perché l'aria buia ti asciugasse le guance? E poi hai scavato, hai parlato. Quanto parlate, ragazze!

Lacrime e parole. Per capire, per tirare fuori una radice lunga sei metri che dia un senso al tuo dolore. "Perché faccio così? Com'è che ripeto sempre lo stesso schema? Sono forse pazza?" Se lo sono chiesto tutte.

E allora vai giù con la ruspa dentro alla tua storia, a due, a quattro mani, e saltano fuori migliaia di tasselli.

Un puzzle inestricabile. Ecco, è qui che inizia tutto. Non lo sapevi?

E' da quel grande fegato che ti ci vuole per guardarti così, scomposta in mille coriandoli, che ricomincerai. Perché una donna ricomincia comunque, ha dentro un istinto che la trascinerà sempre avanti.

Ti servirà una strategia, dovrai inventarti una nuova forma per la tua nuova te.

Perché ti è toccato di conoscerti di nuovo, di presentarti a te stessa.

Non puoi più essere quella di prima. Prima della ruspa.

Non ti entusiasma? Ti avvincerà lentamente.

Innamorarsi di nuovo di se stessi, o farlo per la prima volta, è come un diesel.

Parte piano, bisogna insistere. Ma quando va, va in corsa.

E' un'avventura, ricostruire se stesse. La più grande.

Non importa da dove cominci, se dalla casa, dal colore delle tende o dal taglio di capelli.

Vi ho sempre adorato, donne in rinascita, per questo meraviglioso modo di gridare al mondo "sono nuova" con una gonna a fiori o con un fresco ricciolo.

Perché tutti devono capire e vedere: "Attenti: il cantiere è aperto.

Stiamo lavorando anche per voi. Ma soprattutto per noi stesse".

Più delle albe, più del sole, una donna in rinascita è la più grande meraviglia.

Per chi la incontra e per se stessa.

È la primavera a novembre. Quando meno te l'aspetti.

Jack Folla - da una trasmissione di Jack Folla





Ho sempre amato questo brano. Trovo che sia adattissimo per descrivere anche ciò che accade a quelle mamme che, come è successo a me, la normalità sono costrette a tenerla in stand-by per un po': qualche mese, qualche settimana se sono fortunate.

Perchè, diciamo la verità, va bene la gioia, ma non è che quando esci finalmente dall'ospedale riesci a scrollarti via dalle spalle tutto quanto. Me ne rendo conto, paradossalmente, soltanto adesso, a due anni di distanza, quando finalmente riprendo in mano le redini di tutto quanto. Mi rendo conto che, nei due anni trascorsi, malgrado sentissi finalmente di aver superato tutto quanto c'era sempre un qualcosa che mi teneva in sospeso, come incatenata; poi ho capito. Ho capito che, semplicemente, io non sono più la stessa che ero tre anni fa, quando ammiravo sognante le ecografie e ricamavo bavaglini a punto croce. E come potrei esserlo? Ero ingenuamente felice, fiduciosa, ignara.

E adesso? Adesso è diverso, sono CONSAPEVOLMENTE felice, sono più matura - vuoi perchè sono passata da "figlia" a "mamma", vuoi perchè ho conosciuto un inferno che non auguro a nessuno - sono soprattutto decisa a chiudere finalmente quella porta dietro alle mie spalle; e per farlo, mi sono resa conto che bisognava cominciare dalle piccole cose: un nuovo lavoro, una nuova casa, un po' di "potature" tra gli amici, qualche piccolo sogno da tirare fuori dal cassetto, spolverare e finalmente, con un pizzico di coraggio, lasciar volare via. Piccoli progetti che si stanno concretizzando in questi giorni e che mi hanno fatto capire una semplice verità: quello che è stato mi ha cambiata. Fino ad ora avevo cercato di "tornare" alla normalità, malgrado certe immagini che non volevano saperne di andarsene dalla mia testa e mi costringevano a tornare indietro a quei giorni, quando mi mancava l'aria. Invece, ecco l'uovo di Colombo: non è indietro che dovevo guardare, ma avanti. Non "tornare" alla normalità, perchè quella normalità di un tempo non esiste più, ma "agguantare" una nuova normalità, una nuova vita nella quale l'esperienza passata non è un handicap - emotivamente parlando - ma una nuova forza. Smetterla di rimpiangere l'ingenuità di un tempo, accettare la nuova me stessa - la me stessa consapevole che il cuore di mio figlio è stato tagliato, rappezzato e ricucito - e guardare avanti senza paura dei ricordi.
In una parola, "rinascere".

Perciò , per la festa della mamma, voglio dedicare questo brano a tutte le mamme "speciali", quelle che lottano, quelle che aspettano fuori dalla sala operatoria, quelle che temono di non riuscire a lasciarsi alle spalle tutto il peggio.. Siate fiduciose, e guardate sempre avanti.

mercoledì 27 aprile 2011

A PROPOSITO DI ALLOGGI: la bella iniziativa di una mamma

Sarà un pensiero banale, ma chi come me ha attraversato l'esperienza di un Ospedale Pediatrico sa bene che è comunque una grande verità - banale, sì, ma come forse solo le grandi verità sanno essere. E' dal dolore, più che dalla gioia, che spesso sbocciano i fiori più belli.
Quando si è in pace con il mondo e con sè stessi, quando si può essere serenamente supeficiali, quando si ha la sensazione di avere davanti a sè un orizzonte liscio come l'olio è difficile rendersi conto di quanto invece si possa fare per aiutare chi ha bisogno.

Oggi approfitto di questo mio spazio per divulgare, nel mio piccolo, la bellissima iniziativa di una mamma. Una mamma come tante, con tre splendidi figli dei quali però il secondogenito ha dovuto fare i conti, nei dieci anni della sua esistenza, con una malformazione cardiaca che ha richiesto due interventi chirurgici. E' già straordinario vedere come un bambino di quell'età sia in grado di affrontare con maturità e forza d'animo una prova che farebbe tremare le ginocchia a fior fiori di "omaccioni" (perchè alzi la mano chi non avrebbe il sangue gelato nelle vene, sentendosi un compito medico avvolto nel suo bel camice bianco "il tuo cuore ha qualcosa che non va... ,dobbiamo segare, tagliare, riappiccicare, ricucire e speriamo che tutto vada bene."). Sappiamo bene quanto i bambini avrebbero da insegnarci, se solo avessimo voglia di ascoltarli.
E la mamma? La mamma naturalmente crolla nell'angoscia dell'impotenza, teme, spera, aspetta. E quando finalmente tutto quanto si appresta a diventare un lontano ricordo, come tutte noi, non dimentica.
Credo di capire perfettamente quello che è successo; è capitata la stessa cosa a me, e probabilmente a migliaia di altre mamme. Al culmine della gioia, torni alla tua quotidianità sperando di lasciarti finalmente tutto alle spalle, ma ben presto ti accorgi che non è possibile. E' come se qualcosa ti fosse rimasto dentro, qualcosa di piccolo e duro, come un seme, che lentamente nell'ombra comincia a germogliare. "Devo fare qualcosa", ti dici "qualsiasi cosa."
Qualcosa di molto piccolo, come un blog.
Oppure, nel suo caso, qualcosa di più grande, come mettere a disposizione una casa - comprata appositamente per questo "progetto", come lo chiama lei - di quei genitori che dovessero avere la necessità di un alloggio in prossimità dell'Ospedale Pediatrico Bambin Gesù di Roma.
Diceva Madre Teresa: "in questa vita non possiamo fare grandi cose. Possiamo solo fare piccole cose con grande amore." Ed è perciò molto, molto volentieri che segnalo in questo post la splendida iniziativa di Angela (quando si dice, il destino nel nome...).

Queste, tanto per cominciare, le informazioni pratiche sulla casa:

"L'appartamento è sito in zona portuense altezza incrocio con bivio via del Trullo. E' vicinissimo al capolinea dell' 870 (linea che collega portuense all'ospedale) e questo è un dettaglio non trascurabile. E' un appartamento carinissimo ristrutturato di circa 80 mq composto da salottino a vista con divano e tv, cucina arredata, lavatrice, frigo, termoautonomo, bagno, due ampie camere, ripostiglio e terrazzo con lavabo esterno. L'appartamento è ubicato sopra tutti i negozi nonchè ad un mercato rionale ma è molto silenzioso, assolato, ed è posto al piano terzo di una palazzina di quattro, con ascensore."

La disponibilità sarà a partire dal primo maggio, giusto il tempo per il disbrigo delle pratiche burocratiche e per la sistemazione dell'alloggio.

Per informazioni, potete rivolgervi al Negozietto ( il negozio tenuto dalle volontarie dell'OPBG, lo trovate poco dopo l'ingresso all'ospedale dal lato di Piazza Sant'Onofrio), nello specifico alla signora Daniela.

mercoledì 20 aprile 2011

QUELLO CHE SCRISSI ALLORA

Non so perchè l'ho fatto. L'avevo lasciato lì, in un angolo dell'armadio, senza avere più il coraggio nemmeno di prenderlo tra le mani, tutto questo tempo. Mi costava troppo dolore il pensiero anche solo di sfiorare con lo sguardo quelle pagine, riempite con tanta gioia durante i nove mesi di attesa.
Parlo - forse si è capito - del diario della mia gravidanza, quel quadernone ad anelli con la copertina stampata a coccinelle nel quale ho minuziosamente annotato il fluire dei pensieri e delle emozioni, durante i lunghi mesi in cui, lentamente, come una farfalla nel suo bozzolo, mi sono trasformata in una mamma.
Non sapevo ancora quello che avrei dovuto affrontare, sebbene i primi mesi di gravidanza non fossero andati perfettamente lisci (tra minacce d'aborto e una tribolata esperienza con TN e bitest) ero fiduciosa che il peggio fosse ormai alle spalle, che tutto sarebbe andato finalmente per il verso giusto. Solo dieci giorni prima del lieto evento, concludevo dicendo "Ma penso a te, che tra poco arriverai, e mi sento serena."
Poi, un buco lungo quasi venti giorni, un buco del quale conosco perfettamente il senso e il significato. Erano i giorni della confusione, dell'angoscia, del terrore di perdere il terreno sotto i piedi. Anche solo il pensiero di prendere in mano la penna mi sembrava impossibile. D'altronde, come poter mettere nero su bianco una realtà così irreale? Dopo pagine e pagine di emozioni, di carezze scambiate attraverso la pelle tesa del pancione, di piccole paure, come poter parlare di argomenti tanto spigolosi come un'operazione a sterno aperto, un Ospedale Pediatrico, un Reparto di Terapia intensiva Cardiochirugica?
Eppure, a dieci giorni dal parto, quel coraggio l'ho finalmente trovato. Ricordo come fosse oggi quel sabato pomeriggio in cui, in una pausa prima di rientrare in ospedale, seduta al tavolo della sala hobby di casa dei miei ho riempito quelle tre pagine e mezza, con gli occhi inondati di lacrime.
L'ho fatto perchè la mia idea era sempre stata quella, un giorno, di regalare a mio figlio quel diario, affinchè sapesse tutto l'amore che c'è stato dietro. Perchè so che ci saranno momenti bui, quando lui sarà un adolescente tutto ormoni e io la vecchia palla al piede, con le sue regole e i suoi orari; ma voglio che in quei momenti lui non perda mai di vista quello che significa DAVVERO essere mamma. Per questo, in quei mesi, riempivo pagine su pagine, per non perdere neanche una di quelle sensazioni che, a distanza di tempo, avrebbero potuto aiutare mio figlio a capirmi.
E poichè, nella nostra storia, il suo intervento è parte integrante di quelle emozioni, alla fine mi sono fatta forza e ho concluso quel diario nell'unico modo possibile, lasciando andare tutta la paura.
Non ho più avuto il coraggio di leggere quelle pagine; fino ad ora, per questo blog, mi sono sempre affidata al ricordo di quei giorni, alla rievocazione di quelle sensazioni mai sopite. Credo però che sia venuto il momento di lasciare spazio all'unica testimonianza davvero "viva" di quel lunghissimo mese. Nulla di originale, immagino, rispetto a ciò che provano le migliaia di mamme (tremilacinquecento bambini all'anno nascerebbero affetti da cardiopatie congenite) che portano nell'animo cicatrici simili alle mie.
Nel momento in cui scrivevo, mio figlio aveva appena compiuto dieci giorni di vita ed eravamo in attesa dell'intervento di switch arterioso. Stento perfino a riconoscere il mio stile, tanto l'angoscia mi gelava la mente e la penna.

".. Mi sento confusa e disorientata, il mio corpo fatica ad adattarsi. Mi sembra di essermi sognata tutto, fino a pochi giorni fa avevo un pancione enorme e ti sentivo muovere lì dentro, poi all'improvviso le tanto attese contrazioni, il pronto soccorso, la sala travaglio, l'attesa, la tua nascita - il momento più straordinario di tutta la mia vita; e poi come una pallina su un piano inclinato, gli eventi che si susseguono imprevisti, tu che vieni portato via in incubatrice, mi passi davanti nel corridoio e sei bellissimo, dormi con addosso solamente il pannolino e io sono lì in piedi che devo rimanere una notte almeno in ospedale per poter essere dimessa.
Ho pianto per giorni, mi sentivo come se mi fosse stata amputata una parte del corpo, ancora adesso ripenso alla notte in cui ho partorito ed ho un ricordo talmente dolce di quei momenti... ;mi sarebbe piaciuto godermelli di più, trascorrere con tutte le mamme i tre giorni di degenza iniziando a "familiarizzare"con il mio bambino ma la vita ha deciso diversamente, rimanderemo tutto a quando sarai con noi a casa...."

"...E' vero che i cardiologi dicono che è un intervento quasi di routine, ma sei così piccolo e indifeso, mi vengono le lacrime agli occhi anche solo quando la sera ti lascio nella tua culletta.. se penso a quando sarai lì, tutto solo, in camera operatoria mi viene da piangere.
E' come essere ancora incinta, in attesa che tu nasca di nuovo. Mi sto perdendo il tuo primo mese, ho visto che hai già perso il cordone ombelicale, e pensare che mi spaventava tanto l'idea di medicartelo... Ma la cosa più importante è che tu stia bene, che l'operazione vada bene e che possiamo finalmente portarti con noi a casa, nella tua cameretta di "Cars" che il tuo papà ha preparato con tanto amore. Sei tu che mi dai la forza di affrontare ogni cosa, con i tuoi occhietti che mi fissano e le tue manine che mi stringono le dita, sei così sereno e fiducioso nella vita che non posso non esserlo anche io. Continuo a pregare e spero che questo momento passi in fretta."

Questi, i miei pensieri di allora. Qui si interrompe il diario, a parte un pieghevole dell'Unità Operativa di Cardiochirurgia con le informazioni per la dimissione e i numeri da chiamare in caso di necessità. Non si è interrotta, fortunatamente, la nostra storia.

giovedì 10 marzo 2011

QUEL LUNGO GIORNO DI ATTESA....

Scorrendo a ritroso il blog, mi pare di non aver mai descritto dettagliatamente il giorno dell'intervento vero e proprio; a dire il vero nella mia mente è tutto molto sfocato e confuso, probabilmente perchè in quelle lunghissime ore la mia mente era tutt'altro che lucida e ricettiva verso ciò che avevo intorno.
Eppure, immagino che per una mamma ed un papà possa essere utile sapere COSA accade, il giorno in cui tutta la tua vita resta sospesa - per undici, dodici ore - come se qualcuno avesse premuto il tasto "pause".

Com'è facile immaginare, il momento più duro è quello in cui bisogna accompagnare il proprio bimbo fino alla sala operatoria; ricordo di essermi alzata quella mattina con una sensazione a metà tra lo sconforto per ciò che stava per accadere ed il sollievo; sollievo perchè, finalmente, il giorno tanto atteso era arrivato, il giorno che avrebbe fatto da "spartiacque" incamminandoci lentamente verso le dimissioni. Sconforto, facile immaginarlo, perchè le dimissioni ci sarebbero state solo nell'eventualità che tutto fosse andato liscio; è vero, avevamo la statistica a nostro favore, ma come ho detto in un post precedente i meri dati statistici non sono di gran conforto, quando pensi che quel 5% di "sfortunati" potrebbe comunque includere anche te.

Come ogni mattina siamo arrivati al reparto di Patologia Neonatale, ed abbiamo aspettato; l'orario in cui ci avevano dato appuntamento era precedente al normale orario di entrata dei genitori in reparto, perciò nella piccola saletta d'attesa (un brandello di corridoio, una parete occupata dagli armadietti di metallo, un tavolo con copriscarpe e camici di plastica, un citofono) c'erano solo pochi genitori.
Molte volte, nei giorni precedenti, mi ero trovata io nella situazione speculare; seduta sulla sedia di plastica, in attesa di un orario di entrata che pareva non arrivare mai, sapendo che oltre la parete alle mie spalle qualcun'altro (con amore e competenza, per carità, ma pur sempre qualcun altro) stava facendo il bagnetto al mio bambino. In piedi, un padre e una madre col viso segnato, che forzando un sorriso ti raccontano che per loro è arrivato "il giorno".
Qualche parola di circostanza "in bocca al lupo", "anche a voi"; la porta del reparto si apre e finalmente appare l'infermiera che ci chiama. Non dimenticherò mai quel momento, quando oltrepassando la porta abbiamo visto nostro figlio nella sua culletta a rotelle, in corridoio, tranquillo ed ignaro di tutto nel suo pigiamino con il bollino dell'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù.
Il tragitto è stato interminabile ed avvolto in un silenzio irreale; ricordo che seguivamo i passi veloci dell'infermiera attraverso corridoi ed ascensori, talvolta passando in mezzo ad altri pazienti, a volte imboccando i passaggi strettamente riservati al personale. Qualche sguardo di chi ci incrociava lasciava intendere che immaginavano perfettamente dove fossimo diretti. Immagino che, per chi lavora in ospedale pediatrico, lo sguardo smarrito di un genitore che accompagna il proprio bambino nella camera operatoria sia inconfondibile.
Non ricordo a cosa pensavo; ricordo che mi muovevo come un automa, quasi incerta che quella situazione così irreale - i corridoi sotterranei spogli, percorsi solo da infermieri in camice bianco o verde, indaffarati a trasportare portaprovette o spesse cartelline - stesse accadendo veramente, e stesse accadendo a me.
Dopo un ultima salita in ascensore arriviamo in un piccolo atrio, dove troviamo riunito un piccolo manipolo di medici ed infermieri. Lì per lì la mia mente ha faticato non poco per capire che il momento era arrivato; il momento in cui l'infermiera, con tutta la delicatezza possibile ci comunica che dobbiamo salutare il nostro bambino, ed affidarlo a loro.
Cosa ho detto, quando mi sono chinata sulla culletta? Non ne ho idea, così come non ricordo se in quel momento piangessi o meno. Ricordo solo i suoi occhi aperti, e la paura che quella potesse essere l'ultima volta che li vedevo.
Quando ci hanno accompagnato fuori dal reparto, nel corridoio dov'è la sala d'aspetto, ho avuto la sensazione che qualcosa dentro di me si spezzasse. La porta alle nostre spalle si è chiusa con uno scatto secco, quasi un colpo di fucile, lasciandoci in un corridoio attraversato da pazienti, medici, bambini, passeggini, inservienti con i carrelli per ricaricare le macchinette automatiche.
Da quel momento in poi, nella mia testa c'è come un buco temporale. Siamo entrati nella sala d'aspetto, una stanza rettangolare con tutto intorno dei divanetti rivestiti di una stoffa morbida, marrone scuro, e con un quadro della Madonna col Bambino in fondo; con noi c'erano i nostri genitori, ed altri papà e mamme in attesa. Con loro abbiamo scambiato pochissime parole, quel tanto che bastava per sapere che noi, lì dentro, eravamo quelli con l'attesa più lunga: dodici ore.
Dodici ore che ho trascorso immobile su quel divano, sforzandomi assieme a mio marito di non pensare, di immaginare che fossimo in attesa di tutt'altro; avevamo con noi una Settimana Enigmistica (che non ho avuto più il coraggio nè di buttare nè di riaprire per molti mesi, anche dopo il rientro a casa), un Vanity Fair e qualche altra rivista che si perde però nella memoria (forse Geo?). Difficile cercare di affogare l'angoscia con un cruciverba o un po' di gossip. Non controllavo l'ora, non alzavo lo sguardo verso la porta della Sala Operatoria, non passeggiavo nei corridoi, la mia paura più grande era che qualcuno, prima del tempo, venisse per annunciarmi che era sopraggiunto un problema.
Mi limitavo a stare lì. Io e mio marito ci stringevamo l'uno all'altra come due pappagallini.

A pensarci, è straziante. In quel preciso istante in cui mi sforzavo di riempire le caselline del cruciverba a pochi metri da me qualcuno addormentava mio figlio, gli segava lo sterno, lo sollevava, incideva e sollevava le coronarie, staccava aorta e polmonare, le invertiva e ricuciva ciascuna al posto giusto, poi richiudeva tutto. Non so se qualcuno di voi riesce ad immaginare qualcosa di più orribile del corpicino di un neonato di 15 giorni che subisce tutto questo.
Ad ora di pranzo qualcuno ci ha costretto ad uscire per una boccata d'aria - c'era un sole irritante, insolente.. come poteva splendere il sole in una giornata tanto brutta? - e mangiare qualcosa. Siamo rimasti fuori il minimo indispensabile; mi sembra ormai di essere entrata in simbiosi con i divanetti marroni.
Tornati dentro, ricominciamo l'attesa. Nel corridoio non c'erano finestre, perciò il tempo scorreva lento sotto la luce giallastra dei neon; nessun indizio delle ore che si susseguivano.
Non sentivo la stanchezza, il fastidio di trascorrere tutte quelle ore seduta su un divanetto scomodo, la mancanza d'aria fresca e di luce naturale. Ero come imbambolata.
Intuimmo che si era fatto tardi quando ci ritrovammo in una saletta vuota, ed anche fuori nel corridoio non erano rimaste che poche persone immerse anche loro in una silenziosa attesa - avremmo imparato poi che erano genitori di piccoli pazienti in Terapia Intensiva, che attendevano la fine del nostro intervento ed il trasferimento di nostro figlio in TIC per poter finalmente entrare e visitare i loro bambini.
Quando infine un medico è scivolato fuori dalla porta ed ha chiesto di parlarci, ho temuto che le gambe non mi reggessero.
"E' tutto a posto" Parlava in un sussurro. E' strano avere davanti a sè una persona reduce da undici, dodici ore di intervento che trova ancora il tempo e la pazienza di rassicurarti con un sorriso.
Non siamo potuti entrare che per pochi minuti in Terapia Intensiva; mio marito all'inizio ha cercato di sconsigliarmi, per paura che mi impressionassi. Sapevo che avrebbero lasciato lo sterno aperto per almeno 36 ore dopo l'intervento - per verificare che emodinamicamente fosse tutto a posto -e immaginavo che sarebbe stata dura vedere il mio bambino in quelle condizioni.

Ma cos'altro avrei potuto scegliere? E' vero, adesso quell'immagine ce l'ho impressa a fuoco nella mente, ma allora tutto ciò che potevo fare era fargli sentire la mia voce. Una manciata di minuti davanti a quello che sembrava un bambolotto di cera, con un enorme cerotto a coprirgli il petto, sotto al quale su vedeva sollevarsi ed abbassare ritmicamente il cuore. Tubi ovunque, flebo, rubinetti. Un enorme macchinario alle sue spalle che sibila come un mostro addormentato, controllando l'infusione dei farmaci.

Mai come quella sera è stata dura uscire dall'ospedale e lasciarlo lì. Fuori cominciavano a brillare le stelle, l'aria profumava di primavera, e io continuavo ad immaginarlo lì, da solo, nudo nel silenzio della TIC assieme ad altri piccoli pazienti. E piangevo.

martedì 8 marzo 2011

LA BELLEZZA DEL PRESENTE

Tra pochi mesi sarà il secondo compleanno del mio piccolo eroe. E, come accade per tutti i piccoli cardiopatici, anche lui in realtà di compleanni ne ha due: quello anagrafico, quello che si festeggia con le candeline, la torta e i festoni colorati. Ed un secondo, celebrato intimamente tra noi tre, ricordando quel lungo, lungo giorno in cui abbiamo semplicemente ASPETTATO.

Mi rendo conto che la stragrande maggioranza dei post in questo blog riguardino il passato; non a caso, uno dei "tag" più ricorrenti è "a ritroso". il fatto è che in origine l'idea del blog era sì quella di condividere con altre mamme la mia storia, ma anche e soprattutto "buttare fuori" tutto ciò che s'era incrostato lì dentro, da qualche parte. Perchè in quelle lunghe settimane, a volte non c'era nemmeno il tempo per piangere.

Pensandoci adesso, però, pensando alle tante mamme che mi hanno contattato in questi mesi, mi rendo conto che sarebbe forse bello dare loro davvero un segno di speranza, raccontando loro quello che è il presente, la vita quotidiana con un bambino che, due anni fa, ha avuto un intervento di switch per una Trasposizione dei Grossi Vasi.

Ebbene, basti dire che a volte, mentre gli faccio il bagnetto, quasi quasi mi stupisco di vedere lì quella cicatrice. Non che abbia dimenticato, certo; le immagini e le sensazioni di quei giorni sono impresse a fuoco nella mia mente. Ma, sorprendentemente, è come le il mio cervello rifiutasse l'idea che questo bimbo che salta, gioca, ride arrampicandosi come una scimmietta sullo scivolo sia lo stesso che ho visto giacere inerme in un lettino d'ospedale, bianco come la cera.
A distanza di due anni, la bellezza è che tutti quei ricordi assumono quasi un contorno di irrealtà.

Se qualcuno mi chiedesse: come sta OGGI tuo figlio? Non hai paura che possa non avere una vita normale? Io rispondo "assolutamente bene." "Assolutamente no".
Sfiderei chiunque, in mezzo al parco giochi, ad additare lì in mezzo il piccolo "cardiopatico".

E, a volte, sotto sotto mi scappa un sorriso quando, al nido, un'altra mamma cerca la mia compiacenza lamentandosi della figlia o del figlio che ha sempre il moccio/il catarro/la tosse. Una parte di me vorrebbe dire "sì, anche a me terrorizzano i germi... Nella scala delle mie paure viene appena sotto quella che ho provato quando mi hanno detto che, a quindici giorni di vita, avrebbero divuto segargli lo sterno, tagliare aorta e polmonare, sollevare le coronarie, invertire quello che andava invertito e rimettere tutto a posto"... Ma la parte predominante di me sorride e basta. Perchè il bello, lo straordinario del mio presente è in fondo anche questo: poter finalmente tremare al pensiero di un raffreddore, un influenza, una diarrea.

venerdì 4 marzo 2011

UN CONSIGLIO AI GENITORI

C'è una frase che mi sento di riportare in questo blog, e che consiglio a tutti i genitori che si trovino a vivere un'esperienza simile alla nostra di ripetersi, ogni mattina, come un mantra.
E' una frase che ci disse, in uno dei primi giorni, uno splendido cardiochirurgo, giovane membro dell'equipe del prof. Amodeo:

"Ricordatevi che in Cardiologia si sta come in una gara automobilistica: ognuno guida la sua automobilina e deve guardare dritto avanti a sè, senza mai buttare un occhio alle altre".

In Cardiochirurgia c'è una sola, semplice regola: ogni bimbo è un caso a sè stante, ogni intervento è un caso a sè stante. I confronti sono dannosi, deleteri, inutili.
Perciò non guardate le storie degli altri, o meglio ascoltatele per attingervi speranza, positività, conforto, ma non soffermatevi mai a fare paragoni, mai guardare i tempi di ripresa degli altri bimbi, le complicanze post-operatorie, la durata dell'intervento.

Una semplice regola, dunque: correte sulla VOSTRA macchinina senza distogliere mai lo sguardo dal traguardo. Apprezzate i miglioramenti senza pensare che, però, il vicino di lettino ne ha mostrati di più. Preoccupatevi nei limiti, senza guardare il bimbo operato la settimana precedente che è ancora in Terapia Intensiva per un'infezione.
Siate solidali con gli altri, ma non lasciatevi mai andare alla tentazione dei paragoni; ogni storia è a sè.
Può sembrare egoistico, ma andando indietro con la mente è l'unica, piccola-grande verità per affrontare e sconfiggere un mese difficile.

mercoledì 2 marzo 2011

LE MAMME DELLA TIN

Voglio segnalare un bellissimo articolo pubblicato da UPPA (Un Pediatra per Amico, qui il link all'articolo intero) dedicato alle mamme della Terapia Intensiva Neonatale.
Con quelle del Bambin Gesù, per due settimane e oltre, ho condiviso la stanza dedicata ai tiralatte; nonostante la mia esperienza sia diversa ci sono tanti punti in comune con la delicatissima descrizione che ne viene fatta nell'articolo... troppi per non ritrovarmi, alla fine della lettura, con una lacrima impigliata nelle ciglia.
Anche noi con quella chiavetta, anche noi con il rituale quotidiano dello spoglio e vestizione (infilare nel microscopico armadietto una borsa degna di Mary Poppins, nella quale sono stipati tiralatte, libri, assorbenti e retine post parto, amuchina, bottiglietta d'acqua, portafogli, cellulare, fazzoletti e tutto ciò che può servire a darci conforto in una lunga, intera giornata trascorsa tra le mura dell'ospedale), il camice di carta, i sovrascarpe. Rivedo me stessa in quegli sguardi timorosi di chi, confuso, stordito, completamente disorientato da una realtà che sembra non appartenerci, si lascia guidare dalle mamme "anziane", quelle che già "sanno", essendo lì da tanti, troppi giorni uno uguale all'altro.

"Lo spogliarsi, il prepararsi, il tirarsi il latte," si legge nell'articolo "sono gesti che presto acquistano la valenza di una routine, che lasciano il tempo interiore per prepararsi ad un luogo dove si entra disarmati, completamente scoperti, dove il tempo trascorre lentamente, dove la realtà è fatta di cullette termiche, sensori acustici, bambini intubati e flebo infilate nella testa. Dopo qualche giorno il reparto diventa familiare, le altre mamme sono sempre pronte a dire una parola di rassicurazione, a farsi coraggio tra di loro, a sorridere, sembrano serene, a volte scherzano, ridono, parlano di cose normali; hanno bisogno di quella normalità che cercano tutte le mamme, hanno bisogno di parlare di passeggini, pannolini e fasciatoi per non pensare al resto. Ne hanno bisogno perché quando entrano nel reparto e si avvicinano alle cullette termiche in cui sono chiusi i loro bambini, la normalità sembra un sogno lontanissimo."

Dio, come è vero. Probabilmente l'ho scritto e riscritto mille volte, ma è così: entri lì dentro e la normalità appare come qualcosa di terribilmente effimero. E ci sono momenti in cui il tarlo del "forse la normalità non l'avrò mai" ti divora il cervello con fastidiosa tenacia. Eppure c'è una molla che ci spinge comunque a reagire, e ti ritrovi inconsapevolmente a scherzare e sorridere - perfino quando sei fuori dalla Terapia Intensiva Cardiochirurgica ed aspetti di vedere tuo figlio pallido come un morticino nella sua ragnatela di tubi.

"
Quando escono dal reparto con quei microscopici fagotti nelle carrozzine hanno l`espressione di chi sta rubando qualcosa. Camminano con lo sguardo fisso dentro alla carrozzina poi lo alzano velocemente sulle altre mamme, quelle che rimangono, le salutano radiose e impacciate, baciano tutti, lasciano la TIN. La normalità non è più un sogno."

Storie diverse eppure così simili.. solo qualche giorno fa, parlando della permanenza nel reparto di Cardiologia Degenza, ricordavo questa stessa sensazione, quando uscendo con la navetta finalmente "piena" hai la sensazione di fare qualcosa di proibito, che qualcuno possa sul più bello fermarti e dirti "ehi, dove state andando.. quel bimbo non è vostro, non ancora"..
Eppure, come conclude l'articolo, un bel giorno
la normalità non è più un sogno. La normalità cui tanto aspiravi e che è stata dietro l'angolo ad aspettarti, finalmente la puoi abbracciare.
Quello è il momento in cui veramente ti rendi conto di quanto sia bella la felicità.

Ecco, per me, per le mamme della TIN, della TIC, della Patologia Neonatale, per tutte le mamme costrette a posticipare di settimane - a volte mesi - la gioia di essere mamme, una canzone dolcissima di Elisa, che già precedentemente avevo postato. Ma che posso farci, per me è stata questa, la colonna sonora di quelle lunghe, lunghissime giornate:


martedì 1 marzo 2011

UNA RICETTA PER IL SANTA LUCIA

Pur non essendo questo un blog di cucina, non posso non essere solidale con la bella iniziativa di Caris, mamma di un piccolo paziente della Fondazione Santa Lucia di Roma, istituto di riabilitazione neurofisiologica che rischia di chiudere inghiottito dalla mancanza di fondi.
Mi immedesimo facilmente, pur venendo da una storia diversa, nei sentimenti di una mamma che vede togliersi letteralmente il terreno da sotto i piedi; sì, perchè veder scomparire un centro grazie al quale il proprio bimbo ha compiuto (metaforicamente e letteralmente) passi avanti e nel quale trovare un sostegno alla propria situazione di genitore alle prese con una realtà che si vorrebbe tanto poter credere che non esista, ma esiste e quand'è così, bisogna rimboccarsi le maniche e darsi da fare, equivale a vedersi aprire davanti una voragine.

Qui il link della fondazione, che vi invito a visitare per rendervi conto di cosa rischiamo di perdere. E dico "rischiamo", perchè quando si tratta di bambini ritengo che il proprio piccolo orticello sia il caso di lasciarlo stare, e sentirsi finalmente coinvolti anche da qualcosa che non viene direttamente a sconvolgere la nostra realtà.

Anche se quello che possiamo fare è una piccola cosa, come quella proposta da Caris: un libro di ricette, ma che siano ricette festose, colorate, golose.. ricette che possano regalare un sorriso ai piccoli pazienti della struttura. Per questo ho deciso di partecipare, e per questo invito tutti voi a leggere il post di Caris partecipando a vostra volta, o perlomeno contribuendo a diffondere la sua iniziativa nel web.

Ecco, dunque, la mia Ricetta per il Santa Lucia:

CUORE DI COCCO:




Ingredienti:

250 grammi ricotta di mucca
150 g cocco grattugiato
80 g (o più, a seconda dei gusti) zucchero

100 g circa cioccolato fondente
35 grammi burro

in più, facoltativo:
biscotti secchi (io ho utilizzato i Novellini Gentilini)
burro fuso

Consiglio di utilizzare una tortiera di quelle che "si smontano", consentendo di rimuovere facilmente il bordo e la base senza rischiare di rompere il dolce.
Le dosi sono per una torta - nel mio caso ho preparato due tortine a forma di cuore ed una circolare, ma avrei potuto tranquillamente riempire una tortiera singola.

Per prima cosa, mescolare bene in una ciotola la ricotta con lo zucchero ed il cocco grattugiato. Nel frattempo, sbriciolare in una seconda ciotola i biscotti secchi, versarvi sopra il burro fuso e mescolarli all'impasto. Volendo, di possono utilizzare per realizzare una base dura come quella della cheesecake (in questo caso il rapporto deve essere almeno 1:2, ad esempio, per 100g di biscotti 50g burro), disponendoli sul fondo dello stampo e lasciando raffreddare in frigo per almeno mezz'ora.
Trasferire a questo punto l'impasto nello stampo e rimettere in frigorifero mentre si prepara la glassa al cioccolato.
Per quest'ultima, sciogliere a bagnomaria il cioccolato fondente insieme al burro, mescolando accuratamente fino ad ottenere una consistenza cremosa; togliere la torta dal frigo, rimuoverla dallo stampo trasferendola su un piatto e ricoprirla bene con la glassa.
Rimettere infine in frigo fino al momento di servire.



Volendo, si possono realizzare in alternativa delle palline con l'impasto di cocco e ricotta e ricoprirle poi con la glassa al cioccolato, ottenendo così delle sfiziose praline.

Trovo che sia un dolce adatto per l'iniziativa di Caris, tanto semplice da poter essere lasciato fare tranquillamente ai bambini (l'unica accortezza è aiutarli a sciogliere il cioccolato, per il resto è un dolce che non richiede l'uso dei fornelli.)


E, con la speranza che la chiusura del Santa Lucia possa venir scongiurata, invio un abbraccio virtuale a Caris e ai genitori di tutti i piccoli pazienti della Fondazione.






lunedì 28 febbraio 2011

IL DOLORE DI UN PADRE




L' uomo nella foto è Kenzaburo Oe: scrittore, esperto di letteratura, ma soprattutto padre di un figlio "diverso". Il suo primo primogenito Hikari, nato nel 1963 con una grave malformazione cerebrale ed operato quand'era ancora in fasce, ha ricevuto in eredità dal difficile intervento un grave ritardo mentale, una forma di autismo associata a ricorrenti crisi epilettiche. Mentre il suo corpo, all'esterno, cresce, nella sua mente tutto è irrimediabilmente arenato in un limbo infantile e muto. Tutti noi sappiamo cosa prova un genitore quando riceve come un fulmine a ciel sereno una diagnosi nella quale la parola "malformazione" ti trafigge il petto come una lama; alcuni di noi sanno purtroppo anche cosa si prova quando, dopo ore di attesa fuori da una sala operatoria, un chirurgo con tutto il tatto possibile viene a spiegarti che, purtroppo, qualcosa è andato storto. E, avendo il meraviglioso dono della scrittura, per Kenzaburo è spontaneo trasmettere attraverso carta e penna le emozioni ; nascono così Un'esperienza personale ( del 1964) e Una Famiglia (raccolta di articoli a carattere autobiografico pubblicati sulla rivista «Sawarabi» nel 1995). Proprio quest'ultimo libro ho letto e mi sento di cosnigliarvi, pur non trattando propriamente nè di cardiopatie congenite nè di piccoli operati al cuore.


Una storia diversa, eppure così vicina sotto alcuni aspetti, come nel suo confessare - a cuore aperto e senza pudori - i suoi tentennamenti, i suoi dubbi, le sue paure. Il racconto pieno di delicatezza che un padre, trascorsi ormai parecchi anni dall'evento, è in grado di guardarsi alle spalle a freddo, tirando le somme, riesaminando i suoi comportamenti alla luce della maturità.
E ancora, la silenziosa e paziente accettazione della moglie, sempre paziente di fronte al comportamento spesso difficile del figlio; e poi la straordinaria capacità di Hikari di comunicare, nonostante tutto, attraverso la musica, superando perfino gli ostacoli fisici che la sua invalidità gli contrappone per diventare compositore di struggenti melodie in grado sorprendentemente di richiamare alla mente di chi ascolta il momento che vogliono rievocare.

Un libro che tratta di disabilità, della difficoltà di essere padre ( e madre ) quando tutto non fila liscio come nei manuali di puericultura, di come le persone che la Vita ci mette accanto non siano lì per caso, ma per insegnarci in qualche modo un messaggio.

Insomma, se avrete voglia - e tempo - di confrontarvi con un papà che ha sofferto e che ha vinto, ascoltate quello che ha da dire Kenzaburo Oe.

(
immagine tratta da Wikipedia)

lunedì 21 febbraio 2011

LA STORIA DI CORA -

Voglio segnalarvi un bellissimo blog (in inglese), testimonianza del fatto che, in una mamma che si scontra con la realtà di una cardiopatia congenita, il desiderio di comunicare è tanto.
Anche quando, quella storia, un lieto fine non ce l'ha. Ecco dunque la storia della piccola Cora, affetta da una cardiopatia congenita e morta proprio tra le braccia della sua mamma a pochi giorni di vita.

Mi rendo conto sempre più che parlare di morte mette parecchio a disagio chi ci sta intorno. Perlopiù, la gente tende a reagire con un silenzio imbarazzato, glissando poi in tutta fretta per tornare a parlare d'altro; eppure ci sono, a mio parere, storie terribili eppure bellissime, perchè servite a far sbocciare qualcosa di bello.
Come forse ho già scritto (o forse no, la memoria comincia a fare cilecca ad un anno dall'apertura di questo blog), da quest'esperienza ho imparato che noi esseri umani siamo come ostriche, in grado di reagire a ciò che più ci ferisce dentro costruendogli attorno la più bella delle perle.

Consiglio dunque a tutti la lettura di questo blog, ma soprattutto a tutti quelli che si trovano ad affrontare una tragedia tanto grande quanto la perdita di un bimbo. Lo so, sarebbe molto più facile fingere che ciò non accada mai, ma purtroppo non tutti hanno la fortuna di un lieto fine; e la mamma di Cora, dal suo immenso dolore, ha pensato bene di creare una sezione del suo blog (Helping a Friend after Baby Loss) dedicata a familiari ed amici, per aiutarli ad aiutare. Perchè solo chi c'è passato è in grado di spiegare DAVVERO cosa si prova e quali parole e quali gesti possono essere veramente d'aiuto.

E visto che il senso di questo mio blog era quello di divulgare esperienze in modo che possano essere d'aiuto ad altri genitori, non posso che segnalarvi questa storia triste e bellissima, senza troppi giri di parole.

domenica 20 febbraio 2011

.. AGLI ANGELI-PAGLIACCI... GRAZIE DI CUORE.

immagine tratta dal sito: http://www.dottorsorriso.it/index.php

Trascorrendo un mese in un ospedale pediatrico ci si imbatte anche in immagini come questa: pagliacci in corsia che, incuranti del dolore, riescono a strappare un sorriso ai bimbi malati. La testimonianza più eclatante, probabilmente, di un bellissimo pensiero di Madre Teresa di Calcutta:
"In this life we cannot do great things. We can do small things with great love."
Vale a dire, che in questa vita non possiamo fare grandi cose, ma solo piccole cose con grande amore.
Il mio incontro con queste persone meravigliose è stato breve, ma lo ricordo come un piccolo raggio di sole in quel periodo buio del quale parlavo in un post recente. Quando meno te lo aspetti, eccoli che entrano in reparto, in due o tre, con i loro colori, i sorrisi, le parrucche e le bolle di sapone. Il mio piccolo Eroe era talmente piccolo che capiva poco o niente, non aveva nemmeno un mese... ma ricordo perfettamente il bambino del letto accanto, grande abbastanza per entusiasmarsi vedendo riempirsi la stanza di bolle di sapone.
Li ricordo con gran piacere, come una ventata d'aria fresca. E pensare che non ho mai amato i clown, nemmeno quando ero piccola; eppure, in quel momento, un naso rosso e degli occhialoni di plastica fuori misura hanno avuto il potere di farmi evadere da tutto.
E che tutto questo accada davvero, è provato: basta leggere questo articolo estratto dal blog Psicologia Online per rendersi conto dell'importanza di queste piccole, straordinarie associazioni.

GRAZIE DI CUORE

sabato 19 febbraio 2011

ARRIVA LA CARTA DELLA SALUTE ALL'OPBG

immagine tratta dal sito: www.ospedalebambinogesù.it

Voglio segnalare oggi una bella e utile iniziativa promossa dall'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù (qui il link con tutti i dettagli); con la Carta della Salute infatti sarà possibile, per i genitori dei piccoli pazienti, accedere facilmente e velocemente a referti, cartelle cliniche e risultati delle analisi. Una bella comodità, insomma; per averla, non bisogna fare altro che rivolgersi agli sportelli dell'ospedale richiedendone l'attivazione.
La privacy de piccoli pazienti è naturalmente garantita: sulla tessera è infatti riportato un codice numerico identificativo (visibile nell'immagine in alto) che, associato ad un PIN di sicurezza da digitare al momento del login consentirà di risalire, tramite il codice fiscale, alla cartella clinica e a tutti gli altri dati disponibili all'interno del database dell'ospedale. Basterà dunque accedere al portale https://cartadellasalute.opbg.net per avere a portata di clicktutte le informazioni desiderate, ovunque vi troviate (se necessario, anche dallo studio medico del pediatra di famiglia!)

Vi rimando dunque al link dell'ospedale per tutti i dettagli, e vi segnalo anche i contatti messi a disposizione proprio dall'OPBG per chiunque volesse informazioni:

telefono: 06/94537815
e-mail: cartadellasalute@opbg.net

giovedì 17 febbraio 2011

... lo sconforto.....

Se qualcuno mi chiedesse in quale momento, durante quel lungo mese di attesa, mi sono sentita DAVVERO a terra, sorprendentemente risponderei: "gli ultimi due giorni in degenza."
Non in Patologia neonatale, durante le due settimane di attesa prima dell'operazione.
Non nelle undici ore fuori dalla sala operatoria, su un divanetto color cioccolato.
Non nei cinque giorni di terapia intensiva.
Tutto questo, complice forse l'istintiva e animalesca forza che in qualche modo richiama le nostre energie quando più ne abbiamo bisogno, in un modo o nell'altro è trascorso senza particolari abbattimenti. Ma proprio quando, in fondo al tunnel, si intravedeva la luce, proprio quando eravamo lì, nel reparto di Cardiologia Degenza, in attesa da un momento all'altro di sentirci dire "Ok, potete uscire", mentre sotto i punti la pelle incominciava a cicatrizzare e tutti ci preparavamo al rientro a casa. E' stato proprio allora che mi sono ritrovata in lacrime, al telefono con mio marito, dicendogli "non ce la faccio", con la tormentosa sensazione che nessuno desse sufficientemente peso a quella frase.
Osservando la me stessa di allora con occhi diversi, a ritroso, è facile capire il perchè. Venivo da un mese duro, due giorni dopo il parto ero già in ospedale per otto ore al giorno, dormivamo spostandoci da un alloggio di suore all'altro, cenavamo in silenzio nella nostra stanzetta un pasto freddo che i nostri genitori si erano preoccupati di portare, perchè fosse stato per noi saremmo campati di aria. Stress, stanchezza fisica, digiuni intramezzati da un tramezzino o un cappuccino bollente consumato in piedi, nel piccolo bar sempre troppo affollato. L'ansia, la frustrazione per non essere in grado di prendermi cura di mio figlio, il latte che ora c'è e ora no, la sensazione di essere in gabbia.
Nel reparto di Cardiologia, l'impegno non è indifferente, per una mamma che ha alle spalle tutto ciò; stare 24 ore su 24 accanto al lettino per poppate e cambi di pannolino, col timore che, se mi fossi allontanata per una boccata d'aria, avrebbe cominciato a piangere. E poi l'attesa, un attesa continua: per il giro di visite mattutine del Pediatra di reparto, per la medicazione, per il controllo Neurologico, per l'infermiera che sarebbe venuta a prenderci per portarci al piano di sotto per l'ecocardio. Anche lì, restavo inchiodata alla mia poltroncina, perchè come è logico in un ospedale le urgenze e le priorità cambiano, e poteva capitare che ci venissero a chiamare proprio ad ora di pranzo, costringendomi a saltare anche quel pacchetto di cracker o di biscotti. Una settimana dormendo poco o niente, senza potersi stendere come si deve, senza la possibilità di una doccia, mangiando di malavoglia nel corridoio appena fuori dal reparto, pronta a rientrare il prima possibile, e quelle estenuanti mezzore nascosta da un paravento, attaccata al tiralatte, approfittando di un sonnellino del mio piccolo eroe.... tutto questo ha finito per fiaccarmi fisicamente e spiritualmente, precipitandomi in una spirale dalla quale faticavo a rialzarmi.

E' stata dura, durissima; e immagino che dovesse essere ancor più dura per quelle mamme che, venute da altre regioni, potevano raramente contare su un papà o una nonna pronti a una sostituzione di dieci minuti, quel tanto che basta per mangiare qualcosa e prendere consapevolezza che davvero non ce la fai più.
Quella mattina in cui l'infermiera ha finalmente detto "preparatevi che in mattinata uscite" mi sono sentita sciogliere le gambe. Il sole non mi è mai sembrato così brillante come quando, dopo un lunghissimo mese di "prigionia", siamo usciti dal reparto con il nostro bimbo ben imbacuccato nella navetta.
Ricordo che mio marito era andato a prendere la macchina e, mentre aspettavo seduta su un muretto, lo guardavo incredula dormire finalmente sotto alle copertine accuratamente lavate e messe da parte durante i nove mesi di gravidanza.

"E' finita".. mi dicevo.

sabato 12 febbraio 2011

STAMINALI PER RICOSTRUIRE IL CUORE DEI PICCOLI CARDIOPATICI

Voglio segnalarvi un articolo che a sua volta riprende quanto pubblicato sulla rivista "Circulation": sembra infatti che una equipe americana, guidata dal chirurgo Sunjay Kaushal, abbia ottenuto risultati che fanno ben sperare nell'ambito di applicazione delle cellule staminali alle cardiopatie congenite.

Esse sarebbero infatti in grado di ricostruire il cuore danneggiato dei piccoli pazienti, sostituendosi così al ben più invasivo trapianto d'organo, con tutte le complicazioni che esso comporta. Il condizionale è però d'obbligo, dal momento che questa ventata di speranza con cui si apre il 2011 necessita ancora dell'approvazione dell'FDA (l'equivalente statunitense del nostro Ministero della Salute). In ogni caso, con l'autunno dovrebber arrivare i primi trial clinici che potranno confermare quanto evidenziato ad oggi dagli studi del Dr. Kaushal.

In attesa dunque di ulteriori sviluppi, vi rimando all'articolo completo (potrete trovare oltretutto il link all'abstract in inglese della pubblicazione originaria su "Circulation").

giovedì 10 febbraio 2011

GIORNATA MONDIALE DI SENSIBILIZZAZIONE SULLE CARDIOPATIE CONGENITE

Anche quest'anno, il 14 Febbraio ricorrerà la GIORNATA MONDIALE DI SENSIBILIZZAZIONE SULLE CARDIOPATIE CONGENITE.

E, anche quest'anno, con mio grande disappunto noto che in Italia questa ricorrenza passa sotto silenzio. Per carità, ci sono tante altre emergenze sotto i riflettori; eppure voglio segnalarvi un post (naturalmente, in inglese), il cui titolo è già di per sè esplicativo: "Perchè diffondere la conoscenza delle cardiopatie congenite può fare la differenza".
Si tratta infatti di un problema che si tende a prendere sotto gamba, probabilmente perchè, come sottolinea l'autore del blog, nell'immaginario di molti quella delle Cardiopatie Congenite non è certo una priorità a livello sanitaria.
Eppure ben tremilacinquecento bambini l'anno (rimando al mio precedente post), in Italia, nascono con una cardiopatia congenita; molti di loro se la porteranno dietro fino all'età adulta, ma per molti di essi una diagnosi tardiva può essere fatale. Conoscere in anticipo la cardiopatia vuol dire potersi informare, poter scegliere l'ospedale nel quale partorire in modo che sia vicino a quello in cui il bambino dovrà essere ricoverato, vuol dire avere attorno personale medico che sa cosa sta per accadere e può intervenire tempestivamente se necessario, pianificare il parto in modo che tutto possa essere predisposto correttamente. E lo dice una alla quale la diagnosi prenatale è purtroppo mancata, e che si è trovata tra capo e collo a dover affrontare qualcosa che non avrebbe mai immaginato.

Ecco dunque, riassumendo i punti cardine del post, perchè è importantissimo diffondere questa giornata mondiale:

- Perchè non bisogna valutare l'importanza, per un genitore, di sapere dove e a chi rivolgersi per avere supporto in un momento molto difficile della sua vita. Genitori non si nasce, ma si impara; tantopiù abbiamo bisogno di imparare come essere genitori in un reparto di Cardiologia Pediatrica;

- Diffondere informazioni sulle cardiopatie congenite vuol dire diffondere la conoscenza dei loro sintomi; mi riferisco naturalmente a tutte quelle cardiopatie che possono non manifestarsi alla nascita, come è accaduto a me, ma a distanza di tempo; è importante dunque che certi campanelli d'allarme non vengano sottovalutati - non per questo volendo seminare un clima di panico tra i neogenitori!

-In alcuni casi, l'informazione sulle cardiopatie congenite può aiutare chi si appresta a diventare genitore ad evitare i fattori di rischio; purtroppo non sempre questo è possibile, dal momento che in molti casi la corretta eziogenesi della malformazione non è nota. In ogni caso, è un aspetto che è necessario sottolineare.

- La ricerca sulle cardiopatie congenite non si deve fermare. Per questo, "spargere la voce" può aiutare le persone ad aprire gli occhi, sostenendo anche chi si occupa di ricerca in questo campo.

Vi rimando in ogni caso al post originale per maggiori informazioni e ulteriori links.

Vi segnalo inoltre di nuovo il link di "A day for the heart -Congenital Heart Defects awareness day", già postato un anno fa, dal quale potete scaricare il banner:

A DAY FOR HEARTS : Congenital  Heart Defects Awareness Day  - Click here for details

o, in alternativa, la versione "button", per il vostro sito o blog.

Insomma, spargete la voce.









lunedì 31 gennaio 2011

ANCORA SULL'ALLATTAMENTO

In un post precedente parlavo della possibilità di riuscire ad allattare normalmente i propri bimbi anche dopo un'esperienza devastante come quella di un mese di degenza in un ospedale pediatrico.
Rileggendolo adesso, mi rendo conto che mi sono - come forse è naturale- soffermata più che altro sull'aspetto "emotivo", probabilmente perchè da donna vedo nell'allattamento molto di più che una semplice e "istintiva" via di alimentazione per un cucciolo.

Ho pensato perciò di riprendere il tema dell'allattamento e di trattarlo da un punto di vista più pratico, ed anche forse più utile ad una mamma che sta incominciando ad organizzare il dopo-parto in vista di un intervento cardiaco per correggere la malformazione del proprio bimbo.
Tanto per cominciare, sottolineo di nuovo quello che scrivevo in chiusura del post: all'ospedale Bambino Gesù di Roma è presente una Consulente dell'Allattamento a disposizione delle mamme di prematuri o di bimbi ricoverati in patologia neonatale, per consigli e informazioni. A noi diedero anche un depliant informativo al momento del ricovero, dal momento che lì all'OPBG l'allattamento materno dei piccoli pazienti è fortemente promosso e sostenuto. Non a caso, all'interno della struttura sono presenti un certo numero di Alloggi per le Mamme Nutrici, destinati alle mamme che allattano e che si vedono costrette a trasferirsi a Roma per seguire il loro bimbo. In questa pagina del sito, trovate le informazioni relative a questo tipo di servizio.

Il mio primo consiglio quindi è questo: nonostante al momento del ricovero la testa sia da tutt'altra parte, trovate il tempo e la lucidità per raccogliere anche questo tipo di informazioni. Come ho scritto nel vecchio post, avere qualcosa su cui concentrare la mente nei momenti di pausa tra un orario di visita e l'altro è fondamentale.

Per quanto riguarda il Bambin Gesù di Roma, le stanze disponibili per l'allattamento erano due: una al piano seminterrato, aperta durante la mattina, la seconda nel reparto TIN Immaturi, a disposizione durante tutto l'arco della giornata. In entrambi i casi, sono a disposizione più tiralatte (non ricordo il numero esatto, mi pare di ricordare quattro al reparto TIN) oltre a tutto il necessario per la pulizia e l'igienizzazione. La mamma non ha che da portare il proprio kit tiralatte in plastica (tubo, coppette ecc.) oltre ai biberon usa e getta, agganciare il tutto e ripulire la postazione una volta terminato. Per quanto riguarda i biberon, in Patologia Neonatale erano le infermiere stesse che li fornivano, bisognava solo ricordarsi di chiederne uno uscendo, quando eravamo in Cardiologia Degenza invece, dal momento che la fornitura di biberon del reparto era più limitata, bisognava riutilizzarli per più poppate; essendo di plastica, li mettevo a sterilizzare insieme alle coppette, al tubo ed al resto nello sterilizzatore chimico.
In ogni caso, rivolgetevi direttamente alle infermiere del reparto e chiedete loro come funziona per quanto riguarda i biberon; ricordo per esempio che alcune mamme della TIN utilizzavano i loro contenitori di vetro della Avent.
Una volta tirato il latte, trasferito nel biberon ed etichettato con i dati del bambino e del reparto, si consegna alle infermiere al momento dell'ingresso in reparto e provvedono loro a riconsegnarlo alla mamma al momento della poppata - o a somministrarlo direttamente al bambino durante la poppata notturna.
Ricordo che, mentre eravamo ricoverati in Patologia Neonatale in attesa dell'intervento c'era qualche mamma che allattava il bimbo direttamente al seno, al momento della poppata; credo dipendesse dal fatto che, nel nostro caso specifico, nostro figlio doveva prendere peso in vista dell'intervento e le infermiere dovevano essere in grado di misurare facilmente e precisamente quanto mangiava. In ogni caso, dato che per alcune mamme la possibilità di allattare al seno esiste anche in quei frangenti, mi raccomando, CHIEDETE SENZA TIMORE al personale del reparto!
Perfino in Terapia Intensiva è possibile portare il latte, lo tengono da parte in frigorifero e appena il bambino può ricominciare ad alimentarsi glielo danno. Inutile dire che in una fase tanto delicata il latte materno diventa fondamentale per accelerare il recupero.

Se posso, spenderei solo un'altra parola sulle stanze dedicate all'allattamento.... Il primo impatto per me è stato tutt'altro che roseo.. per quanto tutti siano disponibili e gentilissimi, ti rendi conto che sei molto simile ad una mucca da latte attaccata alla mungitrice automatica.. specialmente quando erano presenti altre mamme nella stanza, l'immagine che mi veniva alla mente era quella.. Ma cercate di non farvi abbattere da tutto questo, è naturale che è tutto molto diverso dalla scena sognata per nove mesi, di noi mamme adagiate nella poltrona preferita, nostro figlio avvolto nella copertina scelta apposta per lui dalla nonna, una musica di sottofondo, al massimo il papà che osserva incantato.... Ma armatevi di tutta la pazienza che potete, e sforzatevi di pensare che quel piccolo gesto è tutto ciò che potete fare per aiutare il vostro bimbo.

Segnalo infine, per le fortunate (ahimè, non era il mio caso!) che di latte ne hanno in abbondanza, la splendida iniziativa del Bambino Gesù di Roma "Banca del Latte Umano", grazie al quale è possibile donare il proprio latte che verrà poi destinato - dopo opportuno trattamento - ai piccoli pazienti. Rimando al link per tutti i dettagli, non avendo personalmente avuto esperienza diretta di questa iniziativa; posto qui anche il link dell'AIBLUD (Associazione Italiana Banca del Latte Umano Donato), nel caso qualcuno fosse interessato a questo argomento.

Insomma, mai perdere la speranza, basta solo rivolgersi al personale dei reparti che sapranno informare e guidare adeguatamente le mamme.

venerdì 28 gennaio 2011

L'IMPORTANZA DI PAPA'

Che una cardiopatia congenita ti stravolge la vita, è più che evidente. Lo capisci nel momento stesso in cui le ostetriche portano i bimbi in camera delle mamme per la poppata, e tu resti sola.
Ma se vogliamo sforzarci di cercare un briciolo di positività in quelle prime, terribili ore, è proprio qui che l'ho trovata, nello straordinario rapporto "fisico" che si è subito instaurato tra il mio Cuoricino ed il suo straordinario papà.
In realtà il cuore di papà era stato rapito fin dalla prima ecografia, quando in una pancia ancora invisibile l'avevamo visto muovere. Più in là, trascorrevano meravigliosi momenti di intimità, le mani di papà poggiate sul pancione, la bocca incollata all'ombelico. Papà raccontava e il nostro ragnetto, lì dentro, faceva le capriole.
Avevamo letto libri e pagine web nelle quali tutti raccomandavano al papà di chiacchierare col proprio bambino, perchè lui, lì dentro, ascolta.

Beh, sapete una cosa? E' verissimo.
C'è una scena alla quale non ho assistito personalmente, ma che mi è stata raccontata con talmente tanta emozione che mi sembra di vederla.
Dopo ore di attesa fuori dalla porta del DEA (Dipartimento Emergenza Accettazione) al Bambin Gesù, finalmente l'infermiera consente ai genitori di entrare. Il papà entra, il cuore gli batte scorgendo in quella piccola culletta il suo bambino uscito dalla sala operatoria.
E' pieno di tubi, al polso ha ancora il braccialetto di plastica che gli hanno messo nell'ospedale in cui è nato, quando ancora tutto filava liscio come nella più rosea delle favole.
Il petto nudo, indossa solo il pannolino e dorme.
Lui gli si avvicina commosso, lo chiama per nome.
E sente il fiato mozzarglisi in gola quando il piccolo Cuoricino rattoppato, prontamente, apre gli occhi.
Ci sono foto scattate in quei primissimi giorni in cui c'è lui, il suo papà, in piedi accanto alla culletta, mentre gli stringe la manina accarezzandogliela, con un sorriso luminoso. E il piccoletto lì accanto, uno o due giorni di vita appena eppure già sopravvissuto a tutti gli effetti, che lo guarda.

Mi emoziono ogni volta che li guardo, anche oggi quando quella vocina chiama implorante "papàààààà" ogniqualvolta lui si allontana per andare in bagno interrompendo per un attimo i loro giochi.
E' vero, in quelle stesse ore in cui loro due erano per la prima volta soli, padre e figlio, io non ero certo in vacanza, ma inchiodata in un letto d'ospedale in attesa di essere dimessa, in preda ad un angoscia nera e annichilente. Ci dovrei essere io lì con lui, pensavo con rabbia, sentendomi inutilmente lontana dal mio bambino in un momento che avrebbe anche potuto essere il suo ultimo, se le cose avessero deciso di mettersi male.
Ma adesso, rivedendo a distanza di tempo quelle foto, trovo che tutto sommato sia stato proprio lì, nel buio impenetrabile di quell'angoscia, che una stella tanto grande ha potuto splendere.
Per tutta la gravidanza avevo preso in giro le ansie di mio marito, chiamandolo scherzosamente "papà di Nemo"; ed ecco che invece all'improvviso proprio come il Marlin del film anche lui si ritrova solo, mormorare al suo bambino "va tutto bene, c'è papà qui"



(immagine tratta da http://karenjlloyd.com/blog/2008/10/29/feature-favorites-finding-nemo/)

giovedì 27 gennaio 2011

QUANDO IL LIETO FINE NON C'E'



(immagine tratta da http://forum.donnamoderna.com)

In un anno e mezzo, ho conosciuto tante storie e tante mamme. Via facebook, tramite il blog e attraverso il forum in cui avevo postato la mia storia, diverse persone mi hanno scritto condividendo con me qualche settimana di angoscia.
In molti casi, tutto si è concluso con un "e vissero felici e contenti". E la gioia, inutile anche dirlo, per la proprietà transitiva si propagava da loro a me, irradiandomi di quella luce. Rivivevo con loro il momento più bello, quello in cui metti tuo figlio nella navetta e te lo porti via, senza che nessuno venga per riattaccargli un maledetto sensore. Nella hit-parade dei momenti più belli della mia vita, supera per intensità quello in cui, per la prima volta, ho posato gli occhi su di lui.
Ma la realtà è la realtà, le percentuali sono pur sempre percentuali e a volte non tutto finisce con un lieto fine. Capita a volte che apri quel messaggio con una sorta di soddisfazione preventiva, aspettando di leggere "è tutto bene, siamo tornati a casa", e leggi invece qualcosa che ti blocca il sangue nelle vene.
"Se n'è andato". "ha messo le ali ed è volata via". "non ce l'ha fatta".
La condivisione del dolore è forse il dono più grande che c'è stato dato, come specie umana. E forse, come scrivevo tempo fa, il senso di queste brevi vite è semplicemente quello di elevarci al di sopra delle meschinità quotidiane, ricordandoci che abbiamo un cuore in grado di spezzarsi per il dolore altrui.
Quando ti ritrovi a piangere davanti allo schermo di un pc per la storia di qualcuno che non conosci se non virtualmente, capisci che quel mese di ospedale la tua vita l'ha ormai cambiata irrimediabilmente.

Voglio per questo dedicare un pensiero a questi bimbi ed ai loro genitori, persone straordinarie che si tengono a galla in mezzo alla Tempesta Perfetta, al peggior incubo che possa turbare la mente di un genitore.
Quando aspetti fuori dalla sala operatoria per undici lunghe ore, hai il terrore che quella porta si apra troppo presto e che qualcuno con aria mesta esca a dirti che è stato fatto tutto il possibile. Durante la permanenza in Terapia Intensiva, vai a dormire con l'angoscia che il telefono squilli per dirti che c'è stata una complicazione.
Nel nostro caso, potevamo certo dirci fortunati; i numeri della TGA sono più che positivi, ci parlarono di un 95% di possibilità di riuscita. Vivevamo di numeri ormai da mesi, da quando, alla traslucenza nucale, ci parlarono di 1 probabilità su 8 per la sindrome di down (con grande soddisfazione, ho dovuto rifletterci parecchio ed anche ora non sono proprio certa che fosse 1:8 o 1:6, segno che anche l'angoscia più profonda il tempo la lenisce e la cancella!). Alla fine, a qualcosa bisogna pur aggrapparsi e ti aggrappi a quello, ti dici "mica sarò proprio io in quel 5%"?

I numeri sono terribilmente freddi. Cinque per cento significa cinque bambini che smettono di esistere da un giorno all'altro. Significa novantacinque camerette che tirano un sospiro di sollievo e accolgono infine il loro piccolo inquilino e cinque che restano tristemente, irrimediabilmente vuote. Significa dieci genitori che vedono spezzarsi per sempre il loro sogno. Perchè è vero, potranno esserci altri bimbi, ma saranno appunto ALTRI bambini. Potranno aiutare a restituire un po' di serenità, ma non potranno mai e poi mai colmare quel vuoto.
Significa che quei cinque bambini su cento svaniscono lasciando dietro di sè mille domande, chissà di che colore avrebbe avuto gli occhi, chissà come sarebbe stata la sua voce, chissà cosa gli sarebbe piaciuto mangiare a merenda.
E per te che hai temuto, in quei giorni, di essere uno di quei cinque su cento, conoscere anche solo virtualmente quelle storie ti spezza il cuore; in molti casi sono coppie che provavano da anni, che hanno alle spalle uno o più aborti, che pensavano di aver finalmente coronato il loro sogno più grande. E non puoi nemmeno abbracciarli, perchè anche l'abbraccio, come tutto il resto, può solo essere virtuale.

Il senso di questo post? Semplicemente quello di dedicare un pensiero, una preghiera, una riflessione a quei genitori ed ai loro bimbi. Perchè chi ha la fortuna di un lieto fine non può restare indifferente a coloro che, nella trappola delle percentuali, sono rimasti impigliati.

mercoledì 26 gennaio 2011

LA GIOIA DELL'ALLATTAMENTO, NONOSTANTE TUTTO

Mi rendo conto solo ora di non aver mai parlato - tutt'al più, forse, accennato - di una questione che è invece fondamentale per una mamma: la gioia di stringere al petto il proprio bambino, pelle contro pelle, ed allattarlo. Una delle emozioni più intense che la vita è in grado di regalarci.
E che purtroppo, per una mamma costretta ad affrontare la cardiopatia congenita del proprio bimbo, rischia di trasformarsi in un desiderio fragile come una farfalla, sempre il bilico tra il realizzarsi e lo svanire nel nulla.
Comincio questo post dalla conclusione, dicendo molto semplicemente a tutte le mamme che si trovano a vivere qualcosa di simile di non mollare. Siate ostinate, siate testarde, andate contro la vostra stessa mente che, sopraffatta da mille angosce e pensieri, vorrebbe tanto lasciarsi andare.
La gioia di attaccare il vostro bimbo al seno è proprio lì dietro l'angolo, ed è possibile.

Nel mio caso, avevo avuto la possibilità di attaccare mio figlio al seno per una manciata di minuti, appena nato, erano le sei di mattina ed eravamo tutti sfiniti, ancora ignari di ciò che ci avrebbe aspettato di lì a poche ore, perciò l'ostetrica prese quel fagottino insonnolito e lo portò al nido, mandandomi a riposare per qualche ora in attesa di averlo finalmente nella culletta in stanza, accanto a me. Poi la vita, con un colpo di coda, ha cambiato bruscamente direzione, e anzichè stingere al petto un neonato profumato di talco mi sono ritrovata a trascorrere una notte terribilmente solitaria, torcendo con angoscia le lenzuola e rischiando di soffocare nelle mie stesse lacrime. E' stato allora che, al di là delle parole di conforto, degli abbracci, dei timidi tentativi di consolarmi, due ostetriche mi hanno portato in camera un tiralatte e con grande pazienza, riuscendo ad attirare finalmente la mia attenzione distogliendola dal pensiero che in quello stesso momento mio figlio era in una sala operatoria tanto, troppo lontana, mi hanno insegnato ad utilizzarlo.
"Non sottovalutare l'importanza di tirarti il latte" mi dicevano "Puoi fare moltissimo per aiutare tuo figlio, malgrado tu ti senta impotente. Avrà bisogno della sua mamma per rimettersi in forze dopo l'intervento, e puoi farlo solamente in un modo: con il tuo latte."
Perciò, ingoiando le lacrime, ho concentrato tutti i miei pensieri sparsi su quell'unico obiettivo e ho incominciato ad utilizzare quel tiralatte. Per un mese, in qualsiasi momento libero, la sera, la mattina prima di entrare in ospedale, nelle pause tra un orario di visita e l'altro, mi attaccavo a quella macchinetta, dapprima con tutta la mia buona volontà, poi sempre più sconfortata, quando mi rendevo conto che dopo un ora di "tiraggio" riuscivo si e no a riempire un trenta, al massimo cinquanta, grammi di latte, mentre le altre mamme portavano alle infermiere dei bei biberon colmi fino all'orlo.
Mi sentivo svuotata, inutile, incapace perfino di fare la sola cosa che era in mio potere per dare una mano al mio bambino. Difficile riportare su carta - o su video - le emozioni che mi attraversavano in quei momenti, i momenti di frustrazione in cui mi abbandonavo alla disperazione racimolando da chi mi stava intorno vaghi tentativi di rassicurazione che ancor più giravano il coltello nella piaga:
"Su, dopotutto non è la fine del mondo, anche tu sei cresciuta con il latte artificiale."
E invece, per me, ERA la fine del mondo. Sarà stata un po' di depressione post-partum, come mi diceva qualcuno, sarà stata la stanchezza, lo stress, i pasti incostanti e perlopiù a base di panini trangugiati di malavoglia, o forse un insieme di tutte queste cose; fatto sta che mi trovavo sempre più spesso attaccata ad un tiralatte che non voleva saperne di tirare, in preda allo sconforto.
Mi sentivo terribilmente sola, ed inutile. Non so dove e come abbia trovato la forza per insistere, probabilmente quel senso del "dovere" un po' retrò inculcatomi dai miei fin da quando ero piccola.
E quando proprio pensavo di nnon farcela più, le dimissioni, la mia adorata casetta, il divano accanto al lettino dove quasi miracolosamente ho potuto provare la sensazione meravigliosa del proprio bambino che si attacca al seno, la più primordiale delle emozioni, quella grazie alla quale capisci finalmente perchè le gatte socchiudono gli occhi e fanno le fusa, quando allattano i loro piccoli.
Va detto che il latte non era certo aumentato; su consiglio del pediatra, dopo avergli dato il biberon lo provavo ad attaccare, perchè, mi diceva, per un bambino attaccarsi al seno della mamma non è solamente una mera questione "alimentare", ma è una necessità più profonda, intima, un desiderio di protezione e sicurezza.
Miracolosamente ha funzionato, per quattro splendidi mesi. E' vero, non era merito mio la crescita straordinaria di un bimbo che, a detta di chiunque, tutto pareva tranne che una persona uscita poche settimane prima dalla Terapia Intensiva Cardiochirurgica, eppure mi è sembrato un dono meraviglioso.

C'è un verso tratto da "If" di Rudyard Kipling che, a mio parere, condensa perfettamente ciò che ho appena scritto:

If you can force your heart and nerve and sinew
To serve your turn long after they are gone,
And so hold on when there is nothing in you
Except the Will which says to them: "Hold on"

(Se sai costringere il tuo cuore, i nervi e i tendini
A seguire il tuo obiettivo anche quando ti hanno da tempo abbandonato
e così resistere, anche quando in te non c'è più niente
eccetto la volontà che dice loro "Resistete"..)

Siate testarde, dunque. Siate ostinate anche contro tutte le evidenze, anche davanti a quei trenta miseri grammi di latte. Non sottovalutate l'importanza di avere qualcosa cu cui concentrare la mente, il cuore e i tendini, per sentirvi vive. In ospedale, informatevi se esiste una Consulente per l'attallamento (al Bambin Gesù di Roma ad esempio c'è, a disposizione di tutte le mamme di bimbi in Patologia Intensiva ), rivolgetevi a lei e fatevi guidare. Qui un utile link proprio dell'OPBG, nel quale si parla proprio di questa figura.

Non mollate. La possibilità di non perdere completamente i piccoli sprazzi di "normalità" dei primissimi mesi di vita c'è ancora, proprio dietro l'angolo.


(Madonna Litta, Leonardo da Vinci - immagine tratta da www.artfold.org)

martedì 25 gennaio 2011

TREMILACINQUECENTO

Non so se sentirmi consolata o meno da certi numeri: il fatto che ogni anno, in Italia, ben 3.500 bambini subiscano un intervento cardiochirurgico entro il primo anno di vita certo aiuta a scacciare via l'idea di una sorta di "nuvoletta di Fantozzi" che abbia voluto colpire solo me, e proprio me, tra tante pancione in attesa. D'altro canto a pensarci dà i brividi. Vi rendete conto di quanti sono, tremilacinquecento bambini? Provate a immaginare tutte quelle cullette, quei tremilacinquecento braccialetti di plastica col nome della mamma scritto col pennarello, tremilacinquecento pannolini taglia "micro", tremilacinquecento camerette - rosa o celesti - che resteranno vuote, tristemente vuote, in attesa del ritorno del loro piccolo eroico inquilino.
Il dato l'ho pescato da questo articolo molto interessante, nel quale si illustra quanto emerso in occasione del XXV congresso nazionale di Chirurgia Cardiaca, tenutosi a Roma nello scorso novembre.
Le malformazioni più comuni - dati alla mano - risultano essere difetti del setto interatriale/interventricolare, tetralogia di Fallot e coartazione aortica, accanto alla Trasposizione delle Grandi Arterie (o TGA, come abbiamo ormai imparato "amichevolmente" a chiamarla). E in effetti, in quella settimana in cui il nostro Cuoricino veniva tagliato e riassemblato, c'era una coppia di genitori ogni giorno che attendeva fuori dalla sala operatoria, e che rincontravamo poi nel silenzio della Terapia Intensiva, davanti alla loro culletta. Tanti bimbi tutti identici, intubati, nudi, il petto che si solleva e si abbassa ritmicamente sotto al cerotto, là dove lo sterno rimane aperto per 48 ore, in osservazione.
Per questo, si legge nell'articolo, sono state prese in esame le 8 maggiori strutture italiane operanti nel campo della cardiochirurgia, che sono uscite - manco a dirlo - più che vittoriose dall'analisi degli esperti; tutti noi genitori transitati lì dentro sappiamo bene che si tratta di ospedali all'avanguardia a livello mondiale.
Per questo "rimbalzo" volentieri questo articolo sul mio blog, ben consapevole che si tratta di una notizia dello scorso novembre e perciò un tantino "datata".. ma quando abbiamo qualcosa per cui andare a testa alta, in Italia, perchè allora non ripeterlo ancora e ancora, con tutta la voce che abbiamo?

(fonte:http://www.salus.it/cardiologia-c24/cardiopatie-congenite--in-italia-ogni-anno-3-500-bambini-subiscono-un-intervento-chirurgico-nel-primo-anno-di-vita-2272.html)

CARDIOLOGIA PEDIATRICA IN ITALIA : le opinioni di chi c'è stato

Non che ami personalmente la parola "classifica" associata ad un ospedale. Ciononostante, ritengo utile segnalarvi questo link, nel quale sono state raccolte le opinioni e i "giudizi" dei pazienti sulle principali strutture specializzate in Cardiologia Pediatrica nel nostro paese.
Allo stesso modo, segnalo il link gemello relativo invece alle opinioni dei pazienti sui reparti di Cardiochirurgia Pediatrica in Italia.
Per finire, un terzo link tratto invece dal sito dell'Associazione Italiana Cardiopatici, nel quale vengono anche qui elencate le principali strutture ospedaliere operanti nel ramo della Cardiologia pediatrica, con tanto di link ai rispettivi siti.

venerdì 21 gennaio 2011

IL GUESTBOOK DEL CUORE


lasciate pure qui i vostri commenti, le vostre storie, i vostri suggerimenti.
un grazie (naturalmente, di cuore) a tutti coloro che vorranno lasciare un segno, alimentando questo blog.