E che purtroppo, per una mamma costretta ad affrontare la cardiopatia congenita del proprio bimbo, rischia di trasformarsi in un desiderio fragile come una farfalla, sempre il bilico tra il realizzarsi e lo svanire nel nulla.
Comincio questo post dalla conclusione, dicendo molto semplicemente a tutte le mamme che si trovano a vivere qualcosa di simile di non mollare. Siate ostinate, siate testarde, andate contro la vostra stessa mente che, sopraffatta da mille angosce e pensieri, vorrebbe tanto lasciarsi andare.
La gioia di attaccare il vostro bimbo al seno è proprio lì dietro l'angolo, ed è possibile.
Nel mio caso, avevo avuto la possibilità di attaccare mio figlio al seno per una manciata di minuti, appena nato, erano le sei di mattina ed eravamo tutti sfiniti, ancora ignari di ciò che ci avrebbe aspettato di lì a poche ore, perciò l'ostetrica prese quel fagottino insonnolito e lo portò al nido, mandandomi a riposare per qualche ora in attesa di averlo finalmente nella culletta in stanza, accanto a me. Poi la vita, con un colpo di coda, ha cambiato bruscamente direzione, e anzichè stingere al petto un neonato profumato di talco mi sono ritrovata a trascorrere una notte terribilmente solitaria, torcendo con angoscia le lenzuola e rischiando di soffocare nelle mie stesse lacrime. E' stato allora che, al di là delle parole di conforto, degli abbracci, dei timidi tentativi di consolarmi, due ostetriche mi hanno portato in camera un tiralatte e con grande pazienza, riuscendo ad attirare finalmente la mia attenzione distogliendola dal pensiero che in quello stesso momento mio figlio era in una sala operatoria tanto, troppo lontana, mi hanno insegnato ad utilizzarlo.
"Non sottovalutare l'importanza di tirarti il latte" mi dicevano "Puoi fare moltissimo per aiutare tuo figlio, malgrado tu ti senta impotente. Avrà bisogno della sua mamma per rimettersi in forze dopo l'intervento, e puoi farlo solamente in un modo: con il tuo latte."
Perciò, ingoiando le lacrime, ho concentrato tutti i miei pensieri sparsi su quell'unico obiettivo e ho incominciato ad utilizzare quel tiralatte. Per un mese, in qualsiasi momento libero, la sera, la mattina prima di entrare in ospedale, nelle pause tra un orario di visita e l'altro, mi attaccavo a quella macchinetta, dapprima con tutta la mia buona volontà, poi sempre più sconfortata, quando mi rendevo conto che dopo un ora di "tiraggio" riuscivo si e no a riempire un trenta, al massimo cinquanta, grammi di latte, mentre le altre mamme portavano alle infermiere dei bei biberon colmi fino all'orlo.
Mi sentivo svuotata, inutile, incapace perfino di fare la sola cosa che era in mio potere per dare una mano al mio bambino. Difficile riportare su carta - o su video - le emozioni che mi attraversavano in quei momenti, i momenti di frustrazione in cui mi abbandonavo alla disperazione racimolando da chi mi stava intorno vaghi tentativi di rassicurazione che ancor più giravano il coltello nella piaga:
"Su, dopotutto non è la fine del mondo, anche tu sei cresciuta con il latte artificiale."
E invece, per me, ERA la fine del mondo. Sarà stata un po' di depressione post-partum, come mi diceva qualcuno, sarà stata la stanchezza, lo stress, i pasti incostanti e perlopiù a base di panini trangugiati di malavoglia, o forse un insieme di tutte queste cose; fatto sta che mi trovavo sempre più spesso attaccata ad un tiralatte che non voleva saperne di tirare, in preda allo sconforto.
Mi sentivo terribilmente sola, ed inutile. Non so dove e come abbia trovato la forza per insistere, probabilmente quel senso del "dovere" un po' retrò inculcatomi dai miei fin da quando ero piccola.
E quando proprio pensavo di nnon farcela più, le dimissioni, la mia adorata casetta, il divano accanto al lettino dove quasi miracolosamente ho potuto provare la sensazione meravigliosa del proprio bambino che si attacca al seno, la più primordiale delle emozioni, quella grazie alla quale capisci finalmente perchè le gatte socchiudono gli occhi e fanno le fusa, quando allattano i loro piccoli.
Va detto che il latte non era certo aumentato; su consiglio del pediatra, dopo avergli dato il biberon lo provavo ad attaccare, perchè, mi diceva, per un bambino attaccarsi al seno della mamma non è solamente una mera questione "alimentare", ma è una necessità più profonda, intima, un desiderio di protezione e sicurezza.
Miracolosamente ha funzionato, per quattro splendidi mesi. E' vero, non era merito mio la crescita straordinaria di un bimbo che, a detta di chiunque, tutto pareva tranne che una persona uscita poche settimane prima dalla Terapia Intensiva Cardiochirurgica, eppure mi è sembrato un dono meraviglioso.
C'è un verso tratto da "If" di Rudyard Kipling che, a mio parere, condensa perfettamente ciò che ho appena scritto:
If you can force your heart and nerve and sinew
To serve your turn long after they are gone,
And so hold on when there is nothing in you
Except the Will which says to them: "Hold on"
(Se sai costringere il tuo cuore, i nervi e i tendini
A seguire il tuo obiettivo anche quando ti hanno da tempo abbandonato
e così resistere, anche quando in te non c'è più niente
eccetto la volontà che dice loro "Resistete"..)
Siate testarde, dunque. Siate ostinate anche contro tutte le evidenze, anche davanti a quei trenta miseri grammi di latte. Non sottovalutate l'importanza di avere qualcosa cu cui concentrare la mente, il cuore e i tendini, per sentirvi vive. In ospedale, informatevi se esiste una Consulente per l'attallamento (al Bambin Gesù di Roma ad esempio c'è, a disposizione di tutte le mamme di bimbi in Patologia Intensiva ), rivolgetevi a lei e fatevi guidare. Qui un utile link proprio dell'OPBG, nel quale si parla proprio di questa figura.
Non mollate. La possibilità di non perdere completamente i piccoli sprazzi di "normalità" dei primissimi mesi di vita c'è ancora, proprio dietro l'angolo.

(Madonna Litta, Leonardo da Vinci - immagine tratta da www.artfold.org)
Nessun commento:
Posta un commento